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Il femminismo per cambiare il mondo

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Pubblicato su femministerie

Un libro che vuole essere scomodo. L’intento è dichiarato sin dall’iniziale citazione di Cioran: un libro deve frugare nelle ferite. La ferita in questo caso è il femminismo mainstream, la cultura dell’indignazione, la declinazione individualista della ricerca di felicità delle donne.

Jessa Crispin, scrittrice “blogger e attivista”, come ci informa la quarta di copertina, ci provoca sin dal titolo Perché non sono femminista. Un manifesto femminista (Sur, 2018).

Per noi che abitiamo in un paese in cui il femminismo non è mai diventato veramente di moda, dove anche le forze politiche progressiste faticano a pronunciare questa parola e la grande stampa democratica è sostanzialmente un monopolio di firme maschili, la critica al femminismo universale che anima le prime pagine può appare fuori contesto. Ma a ben vedere il tema parla anche a noi, perché il punto è la differenza tra una strategia di accesso al potere e al mondo così come è e la messa in discussione della struttura del mondo, tra la partecipazione alla pari all’oppressione dei più deboli e la creazione di una società più equa.

All’inizio Jessa Crispin appare così presa dall’insofferenza per un femminismo del self empowerment e dell’affermazione personale, da mettere totalmente tra parentesi il guadagno e lo spostamento che comunque può esserci nella fine della presenza solo maschile nei luoghi delle decisioni e del potere, non tanto perché questo basti a cambiare di segno le politiche ma perché rompe il patto tra fratelli su cui si è fondata la politica nella modernità e nell’occidente.

In questo caso credo davvero che l’oceano che ci divide faccia la differenza. Il libro è stato scritto prima che Trump vincesse le elezioni, in un paese che sembrava si avviasse ad avere la prima donna presidente.

Io ho letto così la critica al femminismo universale, da non confondere con il femminismo intersezionale e inclusivo, di cui Jessa Crispin in questo testo del 2016 non parla. Il primo annulla le differenze, a cominciare da quelle di classe, e propone un’emancipazione personale e autocentrata, il secondo parte dalla lettura di queste, consapevole della struttura dei rapporti di potere nel mondo.

Ed è questo ciò che interessa all’autrice. Ribadire che il femminismo è scomodo, che non può limitarsi a cambiare l’arredamento. Mettere le donne di fronte alle loro contraddizioni, interrogare le emancipate e le potenti sulla loro partecipazione allo sfruttamento delle altre e trasformare in un punto di forza per tutte la presenza di alcune nei luoghi del potere. Ma si può fare se si agisce l’essere state escluse, se lo sguardo rimane vigile, attento a chi è fuori.

In questo momento, le donne sono in una posizione straordinaria. Siamo dentro per metà. Siamo su tutti e due i fronti della dinamica potenti/impotenti. Sarebbe facile, quindi, buttare tutto all’aria tirando di qua e di là.

Su questa strada Cripin invita a vedere anche il lato oscuro delle donne, il loro esserci state anche nei momenti bui della storia dell’umanità, il loro non essere per forza migliori. A più di quaranta anni dalla seconda ondata femminista Crispin invita le donne a non lamentarsi per il potere che non hanno, ma ad analizzare come esercitano quello che hanno.

Ci invita a guardare come portiamo avanti le nostre lotte, a lasciare perdere le liste di proscrizione, la caccia alla “misoginia individuo per individuo” e, soprattutto, a saper vedere che l’obiettivo non può essere la “sicurezza”, che diventa forma di controllo per tutti, obiettivo a medio termine che non mette in discussione la cause della violenza, non costruisce la pace, ma crea esclusione e lascia ancora una volta intatta la struttura di potere del mondo.

Jessa Crispin scrive un manifesto femminista sapendo che ormai le donne partecipano al mondo e, come ci suggerisce, “partecipare al mondo inevitabilmente c’incasina”.

Ma non è proprio questa la sfida della libertà?

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