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Davvero la Costituzione parla di “famiglia naturale”?

Pubblicato su femministerie

di Cecilia D’Elia e Giorgia Serughetti

Nel dibattito politico italiano di questi giorni si parla spesso di “famiglia naturale” riferendosi all’art. 29 della Costituzione.  Il testo in verità parla di famiglia come “società naturale”, che è cosa diversa.  La preoccupazione dei costituenti era quella di tutelare l’autonomia della famiglia dall’ingerenza statale. Non c’era intento di bollare come “innaturali” tutti gli altri tipi di unione.  Nel nostro libro “Libere tutte. dall’aborto al velo, donne nel nuovo millennio” (minimum fax, 2017) abbiamo provato a ricostruire la genesi di quella formulazione, cercando di dar conto della ricchezza del dibattito che portò alla scrittura dell’articolo. Ne riproponiamo qui uno stralcio, sperando di contribuire a una corretta discussione sulle famiglie e sui principi costituzionali:

[…] La realtà è variegata. Entrando oggi nei palazzi Federici, il grande isolato di case in cui Ettore Scola ambientò uno dei suoi film più belli, Una giornata particolare, troveremmo una pluralità di forme di famiglie. Qualcuna ancora molto vicina a quella della casalinga Sophia Loren, magari sullo stesso pianerottolo in cui vive una giovane single, mentre il piano di sopra è abitato da una coppia non sposata con figli, un anziano solo, oppure un Mastroianni felicemente convivente con l’uomo della sua vita. Sono tutte famiglie, nonostante i militanti dei Family Day cerchino di richiamarsi all’articolo 29 della Costituzione italiana per legittimare come unica famiglia quella fondata sul matrimonio eterosessuale. Definitivamente sconfessati nella legislazione dall’approvazione della legge sulle unioni civili (legge 76/2016), lo erano già nella società dai comportamenti diffusi.

Com’è noto il testo costituzionale, che fu oggetto di accese discussioni tanto da essere votato a scrutinio segreto, sostiene che «la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare». Il primo comma appare illogico per quel richiamo alla società naturale fondata però su un istituto di legge, quindi giuridicamente regolata dallo Stato. È una proposizione che si contraddice, riscritta all’ultimo momento dal comitato di redazione, la cui discussione fu influenzata dalla futura campagna elettorale. In realtà i costituenti erano soprattutto alle prese con una parte poi emendata, quella dell’indissolubilità del matrimonio, che se approvata avrebbe costituzionalizzato il divieto di divorzio. In un primo momento gli articoli erano due, uno sulla famiglia, l’altro sul matrimonio. In sede di discussione Aldo Moro aveva dichiarato che, «pur essendo molto caro ai democristiani il concetto di vincolo sacramentale nella famiglia, questo non impedisce di raffigurare anche una famiglia, comunque costituita, […] dotata di una propria consistenza che trascende i vincoli che possono solo temporaneamente tenere unite due persone». Dopo l’ingerenza fascista nella sfera privata della famiglia, la preoccupazione giusnaturalistica dei democristiani era sancire «che vi sono diritti dell’individuo e delle sue formazioni sociali che sono anteriori alla legge positiva dello Stato» (Caporrella, 2010). L’assillo è quello di impedire interferenze dello Stato. Certo le unioni tra persone dello stesso sesso non erano tra gli orizzonti possibili della discussione costituente (Rodotà, 2016).

Questo richiamo alla società naturale rimase anche quando vennero accorpati gli articoli e famiglia e matrimonio si fusero. Un principio generale, la famiglia, si ritrovò all’interno di una particolare disciplina giuridica, il matrimonio. Come si sa la formula dell’indissolubilità decadde, l’emendamento che lo consentì era del socialista Grilli e passò grazie all’assenza di più di trenta deputati democristiani. Togliatti e i comunisti erano preoccupati, in vista delle elezioni, di non apparire a favore dell’introduzione del divorzio, di non urtare la sensibilità delle masse popolari e di non finire nella trappola di una guerra religiosa. Non fecero dunque una battaglia per cancellare l’indissolubilità, così come del resto accettarono la famiglia come «società naturale». Nilde Iotti, che nella sottocommissione era relatrice per il Pci, puntava soprattutto all’eguaglianza giuridica dei coniugi, al riconoscimento dei figli illegittimi (articolo 30: «È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire e educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio. Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti. La legge assicura ai figli nati fuori dal matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima. La legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità»), alla tutela economica della famiglia, a cui lavoravano altre due donne costituenti, Teresa Noce e Angela Merlin, che contribuirono alla formulazione dell’articolo 31 («La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose. Protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo») . Dunque la formulazione «fondata sul matrimonio» era in realtà funzionale a introdurre il tema dell’indissolubilità, cosa che non riuscì.

La storica femminista Anna Rossi-Doria sottolinea il lavoro solidale fatto dalle donne elette nella Costituente: «rappresentanti più delle donne che dei partiti» (Rossi-Doria, 2007, p. 190). Questa trasversalità delle donne funzionò sugli articoli che riguardavano la cittadinanza, la parità sul lavoro, l’accesso alle professioni, ma si fermò sulla soglia di casa. «Nelle discussioni relative ai rapporti fra i sessi nella sfera privata le costituenti furono sempre divise» (Ivi, p. 192). Secondo lei si spiega anche così il fatto che negli articoli sulla famiglia si succedono affermazioni giustapposte. Si riconosce l’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, ma con i limiti stabiliti dalla legge a garantire l’unità familiare. Si assicura ai figli nati fuori dal matrimonio la tutela giuridica e sociale, ma compatibilmente a quelli dei membri della famiglia. Pesò «la linea del compromesso con la Dc scelta dal Pci sulle questioni dei diritti civili, a partire da quella del divorzio» accanto «alla forza delle pressioni cattoliche» (Rossi-Doria, 2007, p. 203). Il risultato fu «lo squilibrio tra i diritti pubblici e privati delle donne nel testo costituzionale» (Ibidem). Alla battaglia della Democrazia Cristiana per costituzionalizzare la concezione cattolica della famiglia, si aggiunse la strategia dell’Unione donne italiane (a cui appartenevano undici delle ventuno parlamentari elette alla Costituente), la maggiore associazione delle donne della sinistra, vicina al Partito Comunista italiano, preoccupata di non rompere il rapporto di collaborazione con il Centro d’iniziativa femminile (Cif), l’associazione delle donne cattoliche. È interessante ricordare che l’Udi aveva consegnato al ministro della giustizia Tupini nel 1945 una serie di richieste di modifica degli articoli del Codice civile che sostanzialmente anticipavano di trent’anni il nuovo diritto di famiglia, intervenivano sul titolo di capofamiglia all’uomo, l’esercizio della patria potestà, l’amministrazione dei beni, il reato d’adulterio. Era un’analisi che legava il «nesso tra democrazia nella sfera pubblica e nella sfera privata» (Rossi-Doria, 2007, p. 202). Questa chiara piattaforma di diritti civili delle donne fu abbandonata, in parte perché forse ritenute richieste elitarie nella situazione del dopoguerra e perché le masse femminili sembravano non interessate alla battaglia sui diritti civili. Forse, come suggerisce Rossi-Doria, c’era anche il desiderio di non entrare nella scena politica come dure rivendicazioniste, ma con l’immagine meno inquietante di donne dedite al sacrificio e all’impegno. Sicuramente, poi, pesò la strategia togliattiana.

In Italia bisognerà aspettare gli anni Settanta per ottenere le leggi che invereranno gli importanti principi egualitari che le nostre madri costituenti erano riuscite a scrivere nel testo costituzionale. Nel 1970 la legge n. 898 sul divorzio oltre all’indissolubilità del matrimonio nega anche il principio della subordinazione della donna al marito, anticipando la riforma del diritto di famiglia, la legge n. 151 del 19 maggio 1975. Nella società italiana, del resto, le cose erano già molto cambiate. Nel 1965 aveva suscitato scalpore e solidarietà la storia della già menzionata Franca Viola, una ragazza siciliana di Alcamo che aveva rifiutato il matrimonio riparatore dopo aver subito uno stupro. Il femminismo italiano muoveva i suoi primi passi. I tempi erano maturi per riprendere quelle proposte di riforma del Codice civile che l’Unione donne italiane aveva già pronte nel dopoguerra.

(Libere tutte, pp.107-111)

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Vittorio Caporrella, “La famiglia nella Costituzione italiana. La genesi dell’articolo 29 e il dibattito della Costituente” in Storicamente, 6, n. 9, 2010

Stefano Rodotà, “Unioni civili, attenti a non svuotare la legge”, Micromega online, 20 gennaio 2016

Anna Rossi Doria, Dare forma al silenzio, Scritti di storia politica delle donne, Viella, Roma, 2007.

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