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La maternità è un lusso?

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Una delle tante anomalie italiane è il funzionamento del diritto alla maternità: come tanti pezzi del nostro welfare non dipende dalla cittadinanza o dalla semplice condizione di bisogno ma dalla tipologia contrattuale. Cioè due donne che vivono nello stesso Paese, l’Italia, non hanno diritto ad assentarsi dal lavoro per lo stesso tempo o molte volte non ne hanno diritto affatto. Ora, addirittura, Roberto Ciccarelli ci racconta come l’università di Firenze abbia deciso che questo diritto si esercita solo se il “capo” (quasi sempre maschio) trova i soldi facendo fund-raising.

Una delle poche cose decenti della pessima legge Gelmini sull’università e la ricerca era che riconosceva, in teoria, il diritto alla continuità di reddito per le assegniste di ricerca in maternità. Chi finisce il dottorato di ricerca, infatti, quando è fortunato può vincere un assegno di ricerca che può durare anche solo un anno e che fa parte del lungo calvario che una volta portava ad un posto a tempo indeterminato e ora non più. Il comma 6 dell’articolo 22 della legge 240 (qui il testo completo), la riforma Gelmini appunto, estendeva anche alle assegniste la normativa prevista per le altre lavoratrici.

Un’estensione tutta teorica perché si scontra con due realtà, entrambe frutto di decisioni politiche. La prima è la riduzione dei fondi ordinari per la ricerca avvenuta negli ultimi 20 anni. Il risultato è che in Italia si lavora, nelle università e negli enti, sempre di più sulla base di progetti temporanei che richiedono tempo per essere redatti e scarsa certezza di essere approvati. Sono pochissimi gli assegni di ricerca finanziati direttamente dalle università, la maggior parte di essi vengono finanziati a valere su singoli progetti che nel 90% dei casi non può essere presentato dai ricercatori precari ma ha bisogno del sostegno di uno “strutturato”: di solito over-50, molto spesso maschio. La seconda realtà è che la stessa riforma Gelmini ha dato ampio potere ai singoli atenei e dipartimenti per regolare il loro funzionamento e, quindi, anche l’esercizio di diritti fondamentali come quello alla maternità.

Il risultato di questi due fattori, frutto di decisioni politiche, è che l’ateneo fiorentino può decidere, in base all’autonomia garantitagli dalla legge, di lasciare ai maschi over-50 di cui sopra l’onere di trovare i fondi per finanziare la continuità di reddito delle assegniste di ricerca. Se il responsabile del progetto di ricerca con cui è finanziato l’assegno trova i soldi la donna potrà andare in maternità, sennò peccato per lei e per il già bassissimo tasso di natalità italiano.

Quello delle ricercatrici precarie è solo un caso: come denuncia la rete “il nostro tempo è adesso”, il 43% delle donne sotto i 40 anni non accede ai diritti previsti per le lavoratrici standard, percentuale che sale al 55% tra chi ha meno di 30 anni. Ecco quindi le proposte che sono state alla base della discussione nell’assemblea dello scorso weekend e di cui abbiamo parlato qui:

– venga reintrodotta la legge 188 del 17 ottobre 2007 contro le dimissioni in bianco, votata all’unanimità alla Camera, che il governo Berlusconi ha abrogato nel giugno 2008. La legge aveva una funzione preventiva: le dimissioni volontarie, per qualunque tipologia di rapporto di lavoro, dovevano essere date esclusivamente su moduli numerati progressivamente. Avendo una scadenza di quindici giorni, i moduli non potevano essere compilati prima del loro utilizzo.
– sia rispettata la direttiva europea 96/34/CE che impone agli Stati membri e/o alle parti sociali di prendere le misure necessarie per proteggere i lavoratori dal licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale.
– siano giustificate e vigilate le rescissioni di contratto e/o i non rinnovi di contratto per le lavoratrici con figli piccoli; che siano sanzionati i datori di lavoro.
– siano estesi a tutte le lavoratrici e a tutti i lavoratori, a prescindere dal contratto di lavoro, le disposizioni sul “congedo di maternità” (astensione obbligatoria dal lavoro per la lavoratrice), sul “congedo di paternità” (astensione del lavoratore dal lavoro in alternativa al congedo di maternità) e sui “congedi parentali” (astensione facoltativa della lavoratrice o del lavoratore) per il sostegno della maternità e della paternità previste dalla legge n. 53 dell’8 marzo 2000.
– Per le lavoratrici autonome e parasubordinate deve essere previsto un diverso calcolo dell’indennità di maternità erogata dall’INPS che attualmente è molto penalizzante poiché si basa sull’80% di una media dei compensi annuali divisi per i mesi dell’anno, inclusi anche i periodi di non lavoro. Inoltre l’indennità di maternità deve essere come per i dipendenti erogata mensilmente e non alla fine del periodo di astensione.
– Vanno adeguate le normative sull’astensione facoltativa: le lavoratrici parasubordinate possono oggi usufruire dell’indennità per l’astensione facoltativa (successivamente ai 5 mesi di astensione obbligatoria). Allo stesso tempo però non è previsto il diritto a sospendere il contratto per i mesi di astensione facoltativa e la lavoratrice rischia di vedersi rescisso il contratto di lavoro.
– Oltre alla garanzia dell’indennità prevista per le lavoratrici madri iscritte all’INPS, deve essere introdotto un assegno di maternità universale, ossia importo da corrispondersi per cinque mesi a tutte le madri, indipendentemente dal fatto che siano dipendenti o autonome, stabili o precarie, che lavorino o non lavorino ancora.
– Bisogna infine intervenire a sostegno delle dipendenti a tempo determinato degli enti pubblici che spesso sono pagate con progetti esterni e vengono ingiustamente caricate dell’onere di reperire i fondi necessari per far pagare all’Ente l’indennità di maternità. (infatti per gli enti pubblici non è previsto il rimborso dell’INPS).

Vale la pena chiedersi cosa ne pensino il nuovo governo e il nuovo ministro (donna) del welfare.

(Mattia Toaldo)