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Il complesso dell’italiano

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da http://italia2013.org

Nella tragica e complicata vicenda del naufragio della Costa Concordia, la reazione emotiva più forte – tra i commentatori, in rete, nell’opinione pubblica – non è stata il cordoglio per le vittime, né la preoccupazione per un rischio ambientale tuttora gravissimo, ma l’investimento simbolico sulle telefonate tra Gregorio De Falco, comandante della Capitaneria di Livorno, e Francesco Schettino, comandante della nave. Le abbiamo sentite tutti, non avremmo potuto evitarlo neanche volendo. I due uomini sono immediatamente diventati la metafora dell’Italia o, meglio, dell’italiano – Schettino dell’italiano sbruffone e irresponsabile (fa la bravata e poi nega il disastro che ne consegue), De Falco dell’italiano coraggioso e reattivo, che richiama ciascuno alle proprie responsabilità e dà ordini decisi. Il cialtrone e l’eroe.

Metafora perfetta, a giudicare dalle reazioni emotive che la accompagnano. Scatta il tifo: pubbliche contumelie contro Schettino, il cretino-vigliacco-incompetente-sbruffone-forse ubriaco o drogato-ecc., e santificazione a furor di popolo per De Falco, l’eroe, la voce del dovere, l’Italia che resiste. Circolano anche delle magliette con l’ordine del comandante di Livorno al vile Schettino: “Vada a bordo, cazzo!”.

Metafora perfetta, perché così abbiamo tutti un cattivo con cui prendercela e un buono in cui identificarci. Che sia chiara o meno l’esatta dinamica del naufragio, e che di conseguenza sia chiara o meno la catena di responsabilità personali e morali, dirette e indirette, del disastro nel suo insieme, poco importa.

Metafora perfetta, perché ci conferma lo stereotipo per cui noi italiani siamo così: o cialtroni o eroi. Oppure, nella versione evoluta dello stereotipo: mezzi cialtroni e mezzi eroi, a seconda della parte di italianità che prevale in una data circostanza e nella nostra personalità. È uno stereotipo forte, che ricorre spesso nella storia d’Italia anche recente.

La forza degli stereotipi è che trovano sempre un dato di realtà, un fatto, che li conferma, rafforzandoli. Uno stereotipo è prima di tutto un fenomeno culturale, di ordine simbolico; ma, se viene fatto proprio dai soggetti che rappresenta, diventa qualcosa di molto simile a un complesso psicologico. E si rafforza ulteriormente.

Il complesso dell’italiano dice a chi ne è vittima più o meno questo: non c’è niente da fare, in quanto italiano tu sei così, cialtrone o eroe; al limite, se sei un italiano medio, mezzo cialtrone e mezzo eroe.

E su questo presupposto, appena visibile ma granitico come lo scoglio su cui è andata a distruggersi la Concordia, poggiano le giustificazioni, le indulgenze, le assoluzioni e le autoassoluzioni degli italiani verso le proprie malefatte. Siamo così, mezzi cialtroni e mezzi eroi; che ci possiamo fare?

Per fortuna sono una donna, e questo mi aiuta a sfuggire al complesso dell’italiano. Lo stereotipo cialtrone/eroe è maschile. I protagonisti sono maschi e non potrebbero che essere tali. Il cialtrone lo è inequivocabilmente (la sbruffonata della manovra, il narcisismo che traspare dalle foto prima del disastro, e poi il vino, la misteriosa presenza di una donna che lo avrebbe “distratto”), ma lo è anche l’eroe (il militare che richiama all’ordine con la stessa voce decisa dei protagonisti dei film della seconda guerra mondiale corrisponde a un ideale preciso di virilità). Non ho proprio di che identificarmi. Al massimo, se resto intrappolata nell’ordine simbolico di cui fa parte lo stereotipo cialtrone/eroe, posso fare il tifo (nel simbolico maschile la Donna Tifosa è abbastanza benvoluta).

Tutto ciò non significa che dentro ciascuno e ciascuna di noi non possa esserci un po’ del cialtrone e un po’ dell’eroe. E magari anche tanti altri “tipi simbolici”. Ma in questo non c’è niente di specificamente, tipicamente, italiano. Eroismo e cialtroneria, se non diventano stereotipi, sono semplici qualità umane. Si trovano ovunque nel mondo, non solo in Italia e non come tipico prodotto italiano da esportazione.

Gli stereotipi sono pericolosi perché mistificano la realtà, impediscono di vederla e capirla per quella che è. E, così facendo, ingabbiano le persone che pretendono di rappresentare; limitano o addirittura azzerano la loro libertà.

Il complesso dell’italiano mi fa questo effetto. Da un lato avvolge vizi e storture di questo paese nel fatalismo, nell’idea che vizi e storture siano immutabili perché immutabile è la natura in cui sono radicati. Dall’altro, vorrebbe costringermi a vergognarmi di fronte al mondo, in quanto italiana, di malefatte, crimini e fesserie compiuti da un mio connazionale – che sia Berlusconi che fa battute maschiliste e volgari ai vertici internazionali o Schettino che manda a scogli la sua nave, è uguale. Dovrei vergognarmi, perché da qualche parte, nel profondo del mio essere, io sono come loro.

È necessario riconoscere lo stereotipo ed eludere completamente il complesso dell’italiano per sfuggire a questa doppia trappola che ci riduce tutti – uomini e donne – all’impotenza.

C’è qualcosa di molto vero nei commenti che hanno visto nella tragedia del Giglio qualcosa di tipicamente, profondamente italiano. Ma questo qualcosa non è né la cialtroneria di Schettino né l’eroismo di De Falco (o del meno osannato, ingiustamente, commissario di bordo Giampietroni).

Ora, premesso che ci sono moltissimi punti ancora da chiarire e che sarà la magistratura a farlo, ormai ci sono pochi dubbi sul fatto che il responsabile numero uno del naufragio e della morte di tante persone sia il comandante della Concordia. Era vicinissimo alla costa, ha preso uno scoglio ben noto, si è ostinato a non dare l’allarme e infine, quando grazie a un ammutinamento è iniziata l’evacuazione, ha abbandonato la nave. Non sappiamo come un uomo giunto a quel grado di carriera abbia potuto compiere questa serie di scelleratezze. Ma una cosa è certa: se ha materialmente potuto agire così, è perché c’erano le condizioni per farlo. Dietro alle gravi responsabilità di Schettino c’è una lunga e variegata catena di altre responsabilità. Da quelle più immediate (gli ufficiali di bordo che l’hanno lasciato fare), a quelle più lontane e indirette. Anche questo è stato detto: per la società armatrice l’“inchino” rappresenta un’ulteriore attrattiva della crociera, perché permette ai passeggeri di vedere da vicino e fotografare luoghi molto suggestivi; analogamente, per chi sta sull’isola la nave impavesata e illuminata che passa sottocosta salutando con le sirene è uno spettacolo in sé, senza contare che magari, l’anno dopo, il crocierista che ha visto quant’è bella l’isola potrebbe decidere di passare lì le vacanze, incrementando così il turismo locale. E le autorità chiudono un occhio, quando non scrivono lettere di ringraziamento.

È in questa catena di responsabilità, secondo me, che sta tutta l’“italianità” della vicenda.

Un’“italianità” che non è una caratteristica innata trasmessa dai geni nazionali, ma una pratica o, meglio, un’insieme di pratiche molto diffuse: l’inosservanza delle regole, della legge, perché ostacolano i miei piani e perché comunque non sarò sanzionato; la tolleranza da parte di chi dovrebbe far rispettare regole e leggi, perché se tollero mi faccio un amico in più, o magari ho qualche contropartita (diretta come una mazzetta o indiretta come l’incremento del turismo locale); l’indifferenza della persona qualsiasi di fronte ad abusi e violazioni, perché non voglio grane; e anche la complicità della persona qualsiasi in cambio di un piccolo vantaggio immediato (come lo sconto in cambio del mancato rilascio della ricevuta fiscale) o di un favore futuro. In tutti questi casi, le regole e la legge non sono vissute come qualcosa che protegge tutti ma, al contrario, come qualcosa di lontano e impersonale che impedisce a me, o a qualcuno che per qualche motivo voglio favorire, di agire liberamente. Queste pratiche danno luogo a una rete di complicità e connivenze piccole e grandi, una rete di bugie e mezze verità, di ammissioni autoassolutorie e deliri di onnipotenza; amicizie e favori, obbedienza e paura, onore e rispetto.

Una rete di questo tipo ha, di fatto, creato le condizioni materiali che hanno permesso al comandante della Concordia di agire come sappiamo.

Ed è su una rete di questo tipo che ha fondato il proprio potere una delle organizzazioni criminali più potenti del mondo, la mafia.

Se il carattere tipicamente, profondamente italiano del disastro è lì, in quella catena di responsabilità, in comportamenti e pratiche molto simili, nel loro piccolo, a quelle mafiose, siamo di fronte a una realtà molto triste. Anche se poco edificante, lo stereotipo dell’italiano mezzo cialtrone e mezzo eroe dava un certo sollievo.

(Cristina Biasini)