La sera del 19 novembre, a poche ore dalla Giornata mondiale dell’Infanzia, le commissioni riunite affari costituzionali e giustizia del senato discutevano gli emendamenti presentati all’articolo 15 del disegno di legge 1236, «Disposizioni in materia di sicurezza pubblica».
In verità il testo si occupa molto poco di sicurezza delle cittadine e dei cittadini. Quello che disegna, inasprendo pene e prevedendo nuovi reati – ho perso il conto dei reati made by Meloni & co. – è la sicurezza dell’autorità pubblica, incontestabile, visto che anche le forme di protesta o di resistenza non violenta, vengono criminalizzate. Tutte le pratiche che i senza potere hanno per far arrivare al dibattito pubblico le loro istanze diventano reati e loro stessi dei nemici della collettività.
In questo contesto normativo si colloca l’articolo 15 che riguarda l’esecuzione penale nei confronti di detenute madri e rende facoltativo e non più obbligatorio il rinvio dell’esecuzione della pena per le condannate incinte o madri di figli di età inferiore ad un anno.
Nulla strideva di più tra la giornata che ci accingevamo a celebrare, nel nome dei diritti dei minori e quella norma, un passo indietro persino rispetto al Codice Rocco.
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Poche ore prima in un’altra sala del Senato, una conferenza stampa delle associazioni proponenti, a cominciare dalla Società della ragione, aveva illustrato l’appello «Ogni bambino ha diritto a nascere in libertà. No al carcere per le donne incinte». Firmato da tantissime realtà e personalità, il testo ricorda che non si possono separare i neonati dalle madri e che il carcere non è luogo adatto a loro, innocenti assoluti, ristretti per colpe che non hanno.
Una campagna iniziata non oggi. A maggio, in occasione della Festa della mamma, molti di noi parlamentari hanno scelto di essere nei nidi dei penitenziari. Personalmente sono stata a Rebibbia con altre colleghe. L’iniziativa è nata anche in risposta allo stravolgimento della legge per le detenute madri che si era iniziata a discutere alla Camera, un testo che si ispirava al lavoro fatto nella scorsa legislatura dal deputato Siani, per finanziare finalmente le case-famiglia protette. Un testo subito aggredito e stravolto dagli emendamenti della maggioranza.
Lunedì sera ho ascoltato in commissione le stesse chiusure, gli stessi argomenti contro le donne che rimangono incinte apposta per non finire in carcere. Stereotipi e pregiudizi che fanno in ogni caso ricadere sui figli le colpe delle madri. Al fondo è una norma sessista e razzista, come giustamente sottolinea Grazia Zuffa (L’Unità, 20/11/24), pensata per le donne rom, le «borseggiatrici», stigma che punisce i loro bambini, ignorando il fatto che già oggi donne incinte e neonati vengono portati in carcere subito dopo l’arresto o in attesa del processo. Al 31 ottobre le detenute madri erano 16 e 18 i bambini. Anche uno solo sarebbe uno scandalo.
Bisogna andare nei nidi in carcere, andare e vedere, andare e ascoltare. Come si può pensare che sia dignitoso partorire dietro le sbarre, portare avanti serenamente la relazione madre neonata/o, una fase delicatissima della vita di entrambi, in quelle condizioni. Mentre sono solo due le case-famiglia protette, una a Milano e una a Roma, Casa di Leda, dedicata a Leda Colombini, una donna che ha sempre lottato per i diritti delle donne e che ha dedicato l’ultima parte della sua vita a quelli delle detenute madri e dei bambini in carcere.
Non c’è dignità in quelle condizioni, per le madri, per i figli. È uno scandalo che ci siano bambini dietro le sbarre, lo ripeteremo fino allo sfinimento.
Continueremo la nostra battaglia per abolire questa condizione crudele e continueremo a opporci al ddl sicurezza, emendamento su emendamento.