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La repressione non può bastare, servono educazione e formazione. Una mia intervista al Manifesto ad Alessandra Pigliaru

corteo non una di meno
Intervista rilasciata a Alessandra Pigliaru

«Sara Campanella e Ilaria Sula erano ragazze che possono essere definite “forti”, nel senso che seguivano il loro percorso di studio di vita. Erano giovanissime e c’è un tema enorme di violenza misogina e di incapacità di convivere con l’autonomia e la libertà delle donne cui si aggiunge un bisogno di controllo e possesso».

Non può nascondere il misto di dolore e la rabbia, Cecilia D’Elia, senatrice del Pd e da sempre impegnata nel contrasto alla violenza maschile. «Colpisce anche l’efferatezza, era già accaduto sì, e due anni fa abbiamo vissuto un 25 novembre che aveva come domanda proprio il cambiamento di paradigma e chiedeva un salto di qualità nell’impegno di prevenzione e contrasto della violenza maschile contro le donne. Dobbiamo essere capaci di mettere in campo politiche globali e molto più solide soprattutto sulla prevenzione e sul cambiamento culturale», prosegue D’Elia, capogruppo del Pd della Settima commissione (Cultura e patrimonio culturale, istruzione pubblica, ricerca scientifica, spettacolo e sport), vicepresidente della commissione bicamerale d’Inchiesta sui femminicidi, e autrice di un recente e prezioso volume (edito da Donzelli) che si intitola Chi ha paura delle donne.

A proposito della prevenzione, molti sono i progetti messi in campo. L’educazione all’affettività nelle scuole, ad esempio, è stata annunciata da questo governo e mai avviata.

Non è partito ancora niente, ma vi è una lentezza sullo stesso piano antiviolenza. La violenza è strutturale, dunque non si tratta di una emergenza. L’urgenza è la consapevolezza che dobbiamo avere della necessità di cambiare questa cultura alla radice. Lo abbiamo fatto anche quando abbiamo discusso l’ultimo disegno di legge del governo, quello sulle misure cautelari. Abbiamo preso un impegno, ovvero che avremmo parlato di educazione, di cultura e di formazione degli operatori e delle operatrici, siamo indietro anche rispetto alla richiesta di educazione alla sessualità che viene dai ragazzi, dalle ragazze e dalle famiglie. La richiesta proviene appunto da loro, ed è grande. Bisogna parlare delle relazioni e dell’affettività, della sessualità. Su questo come Paese facciamo poco, nonostante la Convenzione di Istanbul, che ci chiede un impegno in questo campo, che noi disattendiamo. Ancora troppo viene lasciato alla buona volontà delle associazioni, delle scuole, dei centri antiviolenza e ciò non è plausibile. Molti progetti poi sono boicottati o contrastati in nome della cosiddetta «ideologia del gender».

Cos’altro può essere attuato?

Rafforzare la rete, a cominciare dai centri antiviolenza, che sono un presidio essenziale, gli sportelli antiviolenza a Roma sono presenti anche nelle Università. Attivare la comunità tutta nel contrasto e nell’attenzione. Nel caso di questi due femminicidi, siamo di fronte a una dinamica di relazioni finite, ormai sappiamo che è il momento più complicato e delicato, quello in cui le storie si concludono. C’è l’incapacità maschile, di molti ragazzi di convivere con il rifiuto, accettare i no delle donne. E in questo la scuola e l’università devono essere luoghi di formazione. Per cambiare, ci vogliono politiche pubbliche più impegnate nella trasformazione culturale.

La risposta invece sembra esclusivamente di carattere repressivo.

Il governo, non fa quello che dovrebbe fare, rinnovare e potenziare il Piano antiviolenza, finanziare l’educazione. Copre questa assenza, e forse questa sua resistenza culturale, con la proposta di un nuovo reato. Io non sottovaluto l’importanza simbolica dell’utilizzo della parola femminicidio, che non a caso, grazie alle donne, si è già affermata nella cultura diffusa. Contesto la necessità della sua traduzione giuridica in una spirale repressiva, che credo non efficace nel contrasto della violenza maschile contro le donne. Sento che la vera priorità oggi sia il mutamento, culturale e di immaginario, che è da assumere come un grande impegno collettivo.

Se penso alle politiche pubbliche vorrei anche aggiungere un punto emerso dalle audizioni che abbiamo fatto proprio questa settimana: le famiglie delle vittime. Vanno sostenute di più, non possono essere lasciate sole.

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