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La senatrice Cecilia D’Elia: «Giorgia Meloni? Sbaglia a non farsi chiamare “La presidente”» (su VanityFair)

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Alessia Arcolaci

Perché declinare al femminile le parole, soprattutto quelle che indicano le professioni, è importante? È solo una questione di forma? Quanto ha a che fare soprattutto con la parità di genere e i diritti delle donne in generale? Nei giorni scorsi la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha ripetuto che no, farsi chiamare «La presidenta» (in un siparietto simil comico ripreso un po’ dappertutto) quella non è una forma di libertà o emancipazione. Infatti, per la definizione del suo ruolo di potere ha scelto di mantenere la forma maschile, per tutto il resto invece, il femminile va bene. Attraversa anche questa riflessione l’incontro di venerdì 8 marzo «Una nessuna centomila» (17:00, Sala Lagos), all’interno della nuova edizione di Book Pride a Milano e che vede protagonista la senatrice Cecilia D’Elia, che a partire dalle pagine del suo libro Nina e i diritti delle donne (Sinnos), citato anche da Paola Cortellesi come spunto per il la sua opera prima «C’è ancora domani», offre una panoramica sulla proposta editoriale volta a raccontare i diritti (spesso disattesi) delle donne e la necessità di un’alleanza per scardinare stereotipi e paure. Il tema dell’edizione di quest’anno, a cura di Laura Pezzino e Marco Amerighi, sarà «Cosa vogliamo» e attraversa gli interrogativi del tempo che viviamo. Lavoro, ambiente, famiglia, attualità, sesso, soldi, scuola, cultura in tutte le sue accezioni e relazioni.

Senatrice, partiamo dal tema di questo Book Pride. Cosa vogliamo?

«La cittadinanza delle donne non è completamente compiuta e molto spesso i diritti anche acquisiti vengono messi in discussione. Ci sono ancora alcune norme che non rispondono al principio di uguaglianza, penso al fatto che noi stiamo discutendo adesso in senato, in Commissione Giustizia, della trasmissione paritaria del cognome ai figli. La corte ha fatto cadere l’automatismo della trasmissione di quello paterno, ma vanno fatte le norme. Nel diritto di famiglia c’è infatti ancora una rimanenza del diritto patriarcale e questo è indicativo. È uno dei temi da cui parte il mio libro».

Come ha scelto di parlare di diritti e donne nel suo libro?

«Penso che sia importante il tema della cultura, si tratta di accompagnare i cambiamenti avvenuti, le nuove libertà delle donne e la lotta agli stereotipi. Mi è stato chiesto, in quanto attivista per i diritti delle donne, oggi sono senatrice, di raccontare il percorso delle donne e i diritti. Era il 2011, eravamo in pieno berlusconismo e il mio desiderio era trasmettere anche ai miei figli il senso di una storia politica delle donne di questo Paese. Infatti Nina e i diritti delle donne è il racconto di una madre ai due figli, attraverso la storia delle donne della famiglia narra i cambiamenti avvenuti. La scelta, per me molto importante è stata quella di rendere concreta la politica, personificarla nella vita quotidiana, nel fatto che ci sono riforme che sciolgono anche nodi che riguardano la felicità delle persone».

Facciamo qualche esempio.

«Penso al racconto sul divorzio e a che cosa ha significato per tante e tanti. È importante partire dalle cose che succedono e dal senso di una politica che ha a che fare con la vita di tutti i giorni riconoscendo però la genealogia delle donne e il contributo che le donne hanno dato alla storia del Paese. Faccio solo alcuni nomi: Tina Anselmi, Franca Viola, Nilde Iotti. Poi c’è un “noi” che è il senso di una libertà che non si conquista abbattendo da sola un soffitto di cristallo ma che riguarda un cambiamento per tutte».

Un cambiamento che in Italia sembra stia avendo un contraccolpo.

«Le norme che abbiamo scritto non sempre, nell’organizzazione del lavoro e nella dimensione della cultura del Paese, trovano rispondenza. Siamo un Paese dove lavorano pochissime donne rispetto agli altri paesi europei. Un Paese in cui muore una donna ogni tre giorni per femminicidio, sono tutte spie del fatto che siamo ancora immersi in una cultura e in relazioni segnate dal dominio, dalla sopraffazione. La stessa violenza è così efferata perché c’è invece una libertà delle donne, delle ragazze soprattutto, che vive nel nostro Paese: percorsi di scuola, scelte universitarie, voglia di esserci».

Stiamo tornando indietro in tema di diritti delle donne?

«Oggi ci sono tanti rischi anche di ritorno indietro. Ma se penso alle grandi manifestazioni del 25 novembre, il modo in cui le ragazze e i ragazzi hanno risposto al femminicidio di Giulia Cecchettin, alle parole della sorella, del padre, io ho visto centinaia di migliaia di persone in strada. Soprattutto abbiamo parlato di cultura, per la prima volta in modo così diffuso la richiesta non era solo sulle norme ma era una richiesta di cambiamento culturale».

Qual è il nostro compito?

«Abbiamo un compito che riguarda la cultura profonda del Paese, abbiamo un compito che è di accompagnare una transizione nei rapporti tra gli uomini e le donne, oggi c’è un cambiamento femminile che chiama in causa quello maschile e quindi penso che dobbiamo ripartire non dall’indottrinamento ma dal rapporto con i più giovani».

I diritti non sono per sempre, come si lavora alla consapevolezza di questo?

«Mostrando intanto come si sono ottenuti ed è quello che ho fatto nel libro. Ciò che ha colpisce le ragazze e le bambine è che un tempo le donne non potessero fare certe cose. Il senso di una storia e anche della nostra forza viene da lì. Purtroppo lo vediamo anche in Paesi europei dove viene messo in discussione persino il divorzio, la Convenzione di Istanbul. Ecco per me l’importante è non solo il sentimento di gratitudine nei confronti di donne di altre generazioni ma ascoltare le nuove generazioni, avere il senso del proprio compito».

Quello di oggi qual è?

«Le ragazze di oggi fanno delle battaglie che sono quelle del loro tempo, come per esempio la tampon tax. Io non credo che ci sia solo un testimone da passare, c’è anche un ascolto. Io mi metto in dialogo e io per prima ho imparato molte cose dai miei figli che oggi hanno 22 e 26 anni».

In questo momento storico, dove anche le libertà fondamentali sembrano essere messe in discussione, basta parlarne?

«Bisogna sortirne insieme avrebbe detto don Milani e il sortirne insieme è la politica. Bisogna capire che la politica non è distante come appare, è partecipare nella dimensione comune e pubblica alla difesa e all’avanzamento di queste cose, tipo: congedi parentali, l’occupazione femminile, i servizi, c’è una discriminazione fortissima nell’uso del tempo tra uomini e donne in questo Paese riguardo al lavoro di cura. Dobbiamo parlarne, dobbiamo fare leggi, ma poi fare in modo che siano applicate, che arrivino a cambiare la vita quotidiana delle persone e questo è anche un tema di rinnovamento dei partiti».

Da a attivista a senatrice, come si sposano queste due anime?

«Sono ancora attivista, sono una femminista in Parlamento, frequento i luoghi delle donne, luoghi anche di movimento, le librerie, i centri studi, le case, faccio anche chiaramente vita di partito, a cui devo molto, ma non potrei stare qui senza questa radice nel femminismo, e questi legami. Soprattutto tutte quelle volte in cui dentro una stanza sei l’unica donna».

Quando è l’unica donna nella stanza, cosa fa?

«A me scatta il pensare alle relazione con le altre e quindi in molti casi sento la responsabilità di parlare comunque perché come puoi dirlo tu, lo sguardo che puoi portare come donna è certamente differente. Per fortuna succede sempre meno».

Anche se i dati sulla parità di genere sono ancora sconfortanti.

«Non basta essere donna, bisogna anche scegliere di avere una relazione politica con le altre e che a questa cosa dia un valore. Puoi anche trovare donne che sono avversarie ai diritti delle donne».

Capita spesso?

«Capita».

Capita con la presidente Giorgia Meloni?

«Promuove politiche che non vanno a vantaggio di tutte».

Di recente la premier ha richiamato in causa la sua scelta di non farsi chiamare “La” presidente. Cosa ne pensa?

«Penso che invece dobbiamo farlo, perché nell’italiano non esiste il neutro e quindi farsi chiamare al maschile è un modo di non dare significato e valore al fatto di essere donna, oltre ad essere un errore di grammatica. Io penso che sia necessario, al contrario, dare valore al fatto di essere donna perché il tema è proprio riconoscere l’autorevolezza del femminile e la credibilità della parola femminile».