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Di nuovo otto marzo.

da italia2013.org

Eccoci qui. E’ di nuovo otto marzo. Come ogni anno improvvisamente ci ritroviamo immerse in tabelle e statistiche, e, incredibile a dirsi, si scopre che ogni aspetto dell’esistenza può essere declinato al femminile. E giù convegni di donne e scienza, donne e politica, donne e medicina, donne e teatro, donne e architettura, donne e agricoltura… Con fastidio qualcuna si difende dicendo che ogni giorno è otto marzo. E’ vero. Ogni giorno siamo ovunque e forse l’otto marzo con la sua ritualità rischia di perdere di senso. Eppure io sono tra quelle a cui questa giornata piace. L’ho sempre vissuta come una giornata dell’orgoglio d’esser donna. La sento mia, credo che anche i riti abbiano un senso, che abbia senso ricordare le operaie che morirono nella loro fabbrica, che i gesti delle istituzioni in questo giorno siano rilevanti. Del resto il segno dell’otto marzo ogni volta è diverso, dipende anche da noi e dal momento politico che si sta attraversando. Dunque è difficile nel 2012 non partire dalla crisi. L’Italia è piena di laureate che hanno un lavoro precario e sottopagato, ha pochissime ricercatrici e continua a tagliare le posizioni lavorative ad alto contenuto d’istruzione. Il nostro Paese continua a vedere il lavoro di cura come un peso per la spesa pubblica da scaricare possibilmente sulle donne di ogni famiglia e se non possono sulle donne immigrate. Quest’anno poi è iniziato all’insegna della violenza maschile contro le donne. 112 donne sono state uccise dai loro familiari o nel 2011 oppure in queste prime settimane del 2012. E’ una fotografia dura della realtà italiana. Ancora più intollerabile se si pensa che le donne hanno più volte preso parola, indicato strade da percorrere, aggredito il nodo del cambiamento possibile. Sicuramente sono state quelle che hanno mostrato il volto del potere berlusconiano e ne hanno segnato il declino. Mettere al centro della politica questa parola femminile può essere anche la chiave di volta per un nuovo modello di sviluppo che ci faccia uscire dalla crisi meglio di come ci siamo entrati.

Ho provato a raccontare qui, in un libro per ragazzi e ragazze, la lunga marcia delle donne italiane dal diritto di voto ad oggi. Un percorso di cambiamento concreto, culturale e sociale della vita delle persone e di riscrittura di diritti. Ha particolarmente senso ricordarlo in questo presente, segnato dalla sfiducia per la capacità della politica di cambiare veramente la vita delle persone. E invece il nuovo diritto di famiglia, il diritto al lavoro femminile, il divorzio, gli asili nido sono state riforme che hanno cambiato la vita delle persone e che sono arrivate come risultato dell’impegno politico di centinaia di migliaia di donne. Lo scorso anno, il movimento “Se non ora quando” ha parlato a tutto il Paese (anche alla parte maschile, interrogandola a partire dalla concezione del corpo femminile) portando a fare politica persone e realtà che o non la facevano da tempo oppure non l’avevano mai fatta. Di questa energia la democrazia italiana ed il centrosinistra dovrebbero alimentarsi proprio in un momento di crisi così acuta.

Scrivemmo qui come in Italia la crisi l’abbiano pagata carissima le donne e di come, però, proprio un nuovo modello di sviluppo che favorisca i lavori dove le donne sono più forti (il welfare, l’istruzione, i servizi, le attività ad alto contenuto di formazione) sia anche il segreto per uscire dalla crisi. Con mille difetti e mille incertezze, è quello che è successo con i piani anti-crisi dell’amministrazione Obama ed è quello che invece non è successo in Europa. Si può ripartire, come ha scritto un gruppo di economiste e intellettuali, con un “pink new deal”, un vero programma di riforme che cambi il volto di questo Paese: l’assegno di maternità universale, i congedi di paternità obbligatori, i distretti family-friendly, il piano straordinario per i nidi e i servizi per l’infanzia, l’universalizzazione della RU 486, l’abolizione degli stage gratuiti, il rafforzamento della rete dei centri antiviolenza. Bisogna sfidare il senso comune anche su una parola abusata troppo spesso: il merito. Le studentesse sono ormai il 60% dei laureati italiani (e questo è un trend che va avanti dagli anni ’80) e in media vantano un punteggio maggiore (106 contro 104) in un arco di tempo di studi inferiore (età media 26,8 anni contro 27,5 anni). Ad attenderle, un mondo del lavoro dove le disuguaglianze di genere si sommano e sovrappongono a quelle basate sulla famiglia di provenienza, sull’origine geografica, sul precariato. E così solo il 30% delle donne meridionali (e quante ce ne sono tra le laureate di cui sopra?) fa parte del mondo del lavoro. E anche quando le donne ci entrano, si meritano molto meno: alcuni studi come quello del World Economic Forum 2010 stimano addirittura nel 50% il divario salariale tra uomini e donne, mentre altre stime dicono che una donna neolaureata supera di poco i 900 euro mensili di reddito. Eppure le ragazze sono più indipendenti dei loro coetanei: nella fascia d’età tra i 18 ed i 29 anni, le donne che vivono ancora con i genitori sono il 71,4% mentre la percentuale sale all’83,2% tra gli uomini.

A questo governo abbiamo chiesto un gesto, importante e simbolico, per cominciare ad invertire la china, un semplice provvedimento: ripristinare la legge 188 che rendeva più difficili le dimissioni in bianco. Una spada di Damocle che rende tutte le donne, ma non solo loro, più ricattabili sul luogo di lavoro. Sarebbe stata una buona notizia per l’otto marzo. O non ci meritiamo neanche questo?

(Cecilia D’Elia)

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