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Transizione o Rottura?

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Silvio Berlusconi si è dimesso e Mario Monti si appresta a divenirne il successore. Si apre una fase nuova, incerta e diversa per molti aspetti da quanto accaduto nel resto del continente. In Portogallo, Spagna e Grecia le situazioni d’emergenza non preludono a ristrutturazioni profonde del quadro politico; nel nostro Paese, invece, è assai probabile che sia così. A Madrid e ad Atene, e prima a Lisbona, una politica debole e in crisi quanto si vuole “amministra” l’emergenza, nella maniera in cui è capace: attraverso l’indizione di nuove elezioni, magari precedute da un breve Esecutivo appoggiato lealmente da (quasi) tutti. In Italia noi stiamo vivendo, contemporaneamente, la gestione di una drammatica situazione eccezionale e un passaggio di regime, quell’agognata Transizione dal ventennio ad un incerto post-berlusconismo. L’intreccio e la sovrapposizione fra le due situazioni (gestione dell’emergenza e Transizione) rende tutto dannatamente complicato. Ed espone a rischi gravissimi proprio chi avrebbe dovuto beneficiarsi (c’era persino il conforto dei sondaggi) della fine del ventennio: noi, la sinistra.

Il governo Monti va preso sul serio: per alcuni è semplicemente l’unico modo possibile per affrontare la transizione verso le prossime elezioni, per altri si tratta invece dell’incubatore di un progetto politico di lungo periodo che porti alla creazione in Italia di un grande partito di centro, tecnocratico ma anche democristiano – perché composto da personale politico proveniente in parte dalla vecchia DC italiana e perché aspira ad avere un ruolo simile a quello della CDU tedesca. Questo progetto piace a larghi settori dell’establishment italiano, li ha elencati bene Matteo Bartocci in questo articolo.

Il successo di questo progetto politico, però, non va dato per scontato. Innanzitutto perché non va data per scontata la fine di questa destra berlusconiana, a prescindere dalle sorti personali del suo attuale leader. In primo luogo, si tratta in questo momento della parte politica che ha preso maggiormente le distanze dal nuovo governo e che quindi potrà capitalizzare maggiormente da una sua eventuale impopolarità. Paradossalmente poi, nella situazione attuale, la destra populista italiana è l’unica che ha una ricetta politica a costo zero: quella che il criminologo David Nelken definì l’ “illegalità amministrata”. Durante gli anni di Tangentopoli, su cui scriveva lui, si trattava della spoliazione dello Stato a fini privati, ora è proprio la scarsità delle risorse la chiave di volta: non ci sono soldi, per cui chi comanda lo Stato permette, selettivamente, a determinati soggetti e categorie di derogare alle norme esistenti per soddisfare un bisogno e tutelare un diritto. Il “Piano Casa” è l’esempio più semplice: non ci sono le risorse per una politica pubblica per la casa e così si permette a chi può di derogare alle leggi urbanistiche e ampliare i propri immobili o cambiarne la destinazione d’uso.

In secondo luogo, il progetto neocentrista-tecnocratico può entrare in crisi (o semplicemente non decollare mai) per la sua scarsa corrispondenza alla società italiana attuale. Nella prima repubblica, il “blocco d’ordine” a favore dei governi democristiani poggiava su basi sociali piuttosto solide: il management, la proprietà e parte dei lavoratori delle grandi imprese del nord, l’impiego pubblico in continua espansione, il notabilato meridionale con le sue clientele. I primi due soggetti oggi sono in forte crisi mentre il terzo, così attivo nelle ultime vicende parlamentari, ha sempre meno risorse pubbliche da gestire e distribuire.

C’è poi una parte notevole della società italiana che chiede di chiudere non solo l’era Berlusconi, ma anche il trentennio conservatore di cui egli è stato la più recente espressione politica. Questa componente del Paese ha dimostrato negli ultimi anni di condividere un’idea di progresso sociale antitetica al berlusconismo. Si tratta, in gran parte, di quel 54% di cittadine e cittadini adulti che è andato a votare (e a votare sì) nei referendum di giugno, di quelli che hanno partecipato alle lotte della CGIL, degli studenti e dei ricercatori, del movimenti delle donne, delle nuove amministrazioni locali e dei fermenti migliori dell’attuale opposizione.

Questa parte di società non vuole una Transizione morbida, ma una discontinuità con il berlusconismo. Una Rottura da fare, in qualche modo, insieme ai nostri avversari non-berlusconiani – quella destra e quel centro civili, che si erano davvero emancipati (in tempi non sospetti) dall’ex padrone e dalla Lega. Non certo presentandosi insieme alle elezioni, ma ristabilendo un clima di “concordia repubblicana” sulle regole del gioco e sui valori di fondo della nostra democrazia, che si ripercuota nell’elezione condivisa del prossimo Presidente della Repubblica, dei Presidenti delle Camere, dei membri della Corte costituzionale, del Consiglio di amministrazione della Rai e di ogni organo di garanzia previsto nei nostri ordinamenti. Che renda inoltre possibile intervenire seriamente su alcuni dei fattori che più hanno degradato la nostra democrazia e consentito il trionfo del berlusconismo: il conflitto d’interessi e il monopolio della tv commerciale privata. Che sappia infine invertire la tendenza allo smantellamento della scuola, dell’università e della ricerca pubblica, e delle istituzioni culturali del paese, che ci ha accompagnato negli ultimi trent’anni.

Accanto e successivamente a questa concordia repubblicana, però, questa parte di società ha bisogno di una proposta politica che lavori ad un’uscita dalla crisi economica basata su due assunti principali: il cambiamento del modello di sviluppo economico (si veda il punto 4 di questo post) e il riequilibrio tra libertà del mercato e fornitura di beni pubblici di cui ha scritto più volte Nouriel Roubini e di cui abbiamo parlato qui. Sono due elementi cruciali se si vuole uscire dalla situazione attuale che è di crisi economica generale e non solo delle finanze pubbliche. Nella migliore delle ipotesi, si tratta di cambiamenti che in questa prima fase potranno per forza di cose essere solo accennati, dato che al futuro governo Monti mancherà l’adeguata base parlamentare e il necessario mandato politico che solo il voto popolare avrebbe potuto conferire.

In questo frangente l’Europa va vista come una risorsa e non come una mannaia. Perché è lo spazio all’interno del quale queste politiche si debbono svolgere se vogliono essere efficaci e perché, già a partire dalle elezioni francesi di giugno, il quadro politico continentale potrebbe cambiare favorevolmente.

Nel frattempo, è necessario quadrare il cerchio: affrontare l’emergenza (quanto sia necessario lo hanno ricordato sabato sia Carlo Galli che Marta Dassù) e mantenere viva e forte la prospettiva del cambiamento, della Rottura. Può accadere solo in un modo: se le forze politiche a cui i sondaggi attribuiscono la maggioranza dei consensi restano unite, sulla base della lealtà reciproca, lanciando sin d’ora il percorso di costruzione vera della coalizione e di selezione della leadership. Devono e possono concordare un agenda parlamentare comune e poi lavorare insieme nel Paese, con assemblee e manifestazioni unitarie, dicendo quello che bisogna dire: che Berlusconi e i suoi hanno rovinato l’Italia ed è ora di cambiare. E chiedendo le elezioni per la fine della prossima primavera, dopo un periodo che duri il minimo indispensabile a placare la tempesta e a predisporre una nuova legge elettorale. Chi rinunciasse a costruire una nuova prospettiva di centrosinistra con un programma condiviso e una classe dirigente scelta dai suoi elettori si assumerebbe una responsabilità gravissima, tanto quanto quella di non fornire una soluzione all’emergenza immediata.

Quello che chiediamo non è, dunque, una strategia dei due tempi ma una strategia “delle due cose allo stesso tempo”: combattere l’emergenza e stabilire una concordia repubblicana mentre si lavora ad una coalizione stabile di centrosinistra che porti un’Italia diversa fuori dalla crisi. Perché il cambiamento della società italiana non sarà il risultato dell’uscita dalla recessione ma la sua precondizione.

Nei prossimi mesi verrà quindi al pettine un nodo fondamentale: in quanti vogliono davvero una Rottura con il berlusconismo, una svolta politica per un governo progressista? E’ ora che si facciano vedere, e sentire. Nella società italiana le persone pronte a sostenerli sono moltissime, più di quanto loro immaginino. Coraggio.

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