da italia2013.org
E’ arrivata.
La riforma del lavoro ha raggiunto una forma, pare, definitiva, approvata dal Consiglio dei Ministri. Curioso che questa forma si presenti come relazione del Ministro del Welfare e non come vero e proprio documento licenziato dall’Esecutivo.
È assai discutibile che, a tavolo con le parti sociali concluso e approvazione da parte del CdM avvenuta, ancora non sia stato reso noto un testo ufficiale e definitivo. Si tratta di una opacità di non poco conto: sia per questioni estremamente concrete (nei tecnicismi delle formulazioni risiedono ricadute molto incisive sulla vita materiale di tutte e tutti coloro cui la riforma si rivolge), sia per ragioni di trasparenza e democrazia nel dibattito pubblico. Impossibile non notare, infatti, che l’assenza di testi definitivi si accompagni a dichiarazioni da parte del ministro Fornero sostanzialmente contraddittorie con i documenti circolati. Tanto da indurre nei più smaliziati il sospetto di una deliberata strategia di mistificazione. Queste mistificazioni si avviluppano in via preferenziale intorno al tema della precarietà (Non solo sulla precarietà tuttavia. Di questi giorni è la vulgata su una presunta estensione dell’art.18 per licenziamenti discriminatori smascherata qui efficacemente da Umberto Romagnoli), terreno prediletto della retorica governativa, sul quale sono state sbandierate rivoluzioni che non è dato oggi rilevare e dove, invece, emergono contraddizioni non da poco. Vediamo perché.
Riduzione contratti precari: falso! E’ stata la prima delle tante promesse non mantenute del Governo. Appena cominciato l’iter della trattativa il Ministro Fornero aveva assicurato una riduzione drastica delle oltre 40 tipologie contrattuali oggi presenti. A parte la limitazione del contratto di associazione in partecipazione, rimane in piedi la pletora di tipologie contrattuali precarie: perché per esempio non abolire il lavoro a chiamata o lo staff leasing, obrobri filosofici e giuridici?
Lotta agli abusi contrattuali: discutibile. Il Governo aveva garantito un contrasto “secco e severo agli abusi”. Restano dubbi, tuttavia, sull’efficacia della strategia scelta: la ridefinizione normativa delle tipologie contrattuali. Una ridefinizione apprezzabile, in quanto le riconduce ad una funzione genuina: si sancisce l’illegittimità, per esempio, di un contratto a progetto per mansioni strettamente esecutive o uguali a quelle svolte da lavoratori dipendenti, oppure di una prestazione con partita iva se prolungata per oltre sei mesi o produttrice di oltre il 75% del reddito del prestatore d’opera. Tuttavia si tratta di una stretta normativa che può essere fatta valere solo ex post, cioè nel caso in cui un lavoratore faccia causa al suo datore di lavoro oppure in base a una denuncia fatta dagli ispettori del lavoro. Non è un problema da poco se teniamo presente la strutturale fragilità e ricattabilità dei parasubordinati (o di larga parte di essi). Privi di un contratto collettivo nazionale di riferimento, di rappresentanza sindacale e con il rischio costante di non vedersi rinnovato il contratto, per un collaboratore fare causa è una specie di atto eroico. Soprattutto in un mercato del lavoro in cui la disoccupazione giovanile al 30% funziona come un ricatto strisciante che costringe ad accettare anche condizioni di lavoro chiaramente illecite. Del resto è difficile pensare che i servizi siano in grado di sorvegliare sull’attivazione di tutti i contratti di lavoro a termine.
Alcuni interventi pensati come contrasto agli abusi, poi, oltre a non essere efficaci rischiano di produrre un effetto peggiorativo rispetto alla condizione di partenza.
E’ il caso dell’aumento delle aliquote per i collaboratori (e p.iva?): dannoso! Per i co.co.pro, infatti, è previsto un aumento dei contributi da versare alla gestione separata dell’Inps che porti dall’attuale 27,72% al 33% nel 2018. Contemporaneamente però niente è stato fatto sui compensi minimi, con il rischio che l’aumento delle aliquote si scarichi sui compensi netti dei collaboratori, provocandone un ulteriore abbassamento. Più che di un rischio, in realtà, si tratta di una certezza come mostrano le clausole inserite da solerti datori di lavoro nei nuovi contratti dei loro collaboratori, nelle quali, nero su bianco, si avvisa che in caso di un aumento del costo del lavoro previsto dalla riforma i compensi pattuiti saranno rivisti al ribasso (ne parla Saldutti qui). Non si capisce se l’aumento riguarderà solo i collaboratori a progetto o tutti coloro che versano alla gestione separata. In questo secondo caso il problema assumerebbe proporzioni insostenibili per le partite iva, che, ricordiamolo, pagano interamente i propri contributi previdenziali perché non soggetti alla ripartizione del carico contributivo come avviene per i collaboratori.
Non essere intervenuti sui compensi rappresenta contemporaneamente un danno ai parasubordinati che vedranno ulteriormente comprimersi i loro compensi (per dare un’idea il compenso medio annuo di un collaboratore monocommittente nel 2009 era di 8.023 Euro, Indagine Di Nicola); e un’enorme occasione persa dato che un intervento congiunto di aumento del costo del lavoro parasubordinato e dei compensi di chi lavora con tali contratti avrebbe rappresentato un disincentivo ex ante all’utilizzo improprio di tali forme e un risarcimento per i lavoratori del rischio connesso alla scadenza del contratto.
Ma la beffa più amara per l’esercito dei precari è rappresentata dall’ASpI (assicurazione sociale per l’impiego) il nuovo ammortizzatore firmato Elsa Fornero, che unifica l’ indennità di disoccupazione e la mobilità, di cui già abbiamo parlato qui.
L’ASpI è stata spacciato come universale, cioè finalmente rivolta a tutti, ma è una falsità clamorosa: per i precari non cambia niente. I parasubordinati che erano esclusi prima dall’indennità di disoccupazione, lo sono oggi dall’ASpI. Per avere un’idea si tratta di circa 1 milione di lavoratori atipici (dati Isfol 2010): cococo, cocopro, assegni di ricerca, docenze a contratto, partite iva, collaborazioni occasionali ecc. I dipendenti a tempo determinato, formalmente inclusi dall’Aspi come lo erano dall’indennità di disoccupazione, continuano a sottostare a requisiti d’accesso altissimi che penalizzano i più giovani e i più precari (2 anni di anzianità contributiva e 52 contributi settimanali versati, che rimangono identici nel passaggio da indennità di disoccupazione a Aspi), tanto da determinare un’esclusione sostanziale di gran parte della platea di riferimento. Prevede requisiti più bassi la Mini-Aspi: nome nuovo per la vecchia indennità di disoccupazione a requisiti ridotti, sempre rivolta ai soli dipendenti e così poco generosa da essere quasi ininfluente per chi è senza lavoro e ha bisogno di un sostegno al reddito.
La novità del testo uscito dal Consiglio dei Ministri (venerdì 23 Marzo) riguarderebbe invece il rafforzamento e la resa strutturale dell’una tantum per i cocopro. Il testo non spende più di due righe per affrontare un problema che doveva essere il principale del riordino degli ammortizzatori: come fornire un sostegno al reddito a chi è storicamente dimenticato dal sistema di protezione, ma anche il più esposto al rischio disoccupazione e alla fragilità economica. E, in più, l’affronta male.
L’una tantum, misura istituita dalla Finanziaria Tremonti 2009 e ratificata dalle finanziarie degli anni successivi, è escludente e avara: oltre a lasciare fuori i cococo del pubblico impiego, le partite iva e tutti gli altri parasubordinati, pone requisiti di accesso ai cocopro così stringenti che di tutti i cocopro rimasti senza lavoro, tra il 2009 e il 2011 hanno usufruito dell’ una tantum solo 13.000; l’importo della misura, poi, corrisponde al 30% del reddito percepito nell’anno precedente (comunque mai superiore ai 4000 Euro) a prescindere dal tempo effettivamente lavorato. Che significa? Che il meccanismo di calcolo è particolarmente penalizzante proprio per i soggetti più fragili, quelli che hanno lavorato solo pochi mesi nell’anno passato. In vista di un imminente (?) intervento in merito, quelle appena ricordate sono osservazioni a memoria dei limiti che non si devono replicare.
Ma il problema non è solo di ripensamento tecnico, bensì di senso complessivo di tale strumento: non rientrante nel sistema degli ammortizzatori sociali tradizionali, ma diverso da un reddito di base o d’inserimento a carattere universale. L’una tantum, per la sua stessa ontologia, somiglia a qualcosa di molto meno sofisticato di un ammortizzatore sociale, o di un reddito di base: somiglia a un’elemosina. E di elemosina non è più tempo.
Per chi aspettava una riforma del lavoro capace finalmente di ridurre le tipologie contrattuali precarie, scoraggiare gli abusi con l’aumento dei contributi e dei compensi (magari con l’aggancio ai contratti collettivi nazionali di riferimento), costruire un welfare più equo e universale, con ammortizzatori sociali per tutti e l’istituzione di un reddito di base questa riforma è un niente di fatto. Per il Governo una grande occasione persa. O forse no.
Inevitabile domandarsi a cosa è servita la retorica sui giovani e sulla precarietà e il perché di tante promesse non mantenute. L’attacco violento all’articolo 18 (che con il modello tedesco ha ben poco a che fare, come spiega qui Ambrosino) suggerisce la risposta. Un atto molto più ideologico che tecnico aveva bisogno di una giustificazione convincente, che tuttavia non ha convinto i più, dato che il governo Monti cala drasticamente nella fiducia degli italiani proprio a causa della riforma del lavoro. Probabilmente inizia a sgretolarsi l’illusione della neutralità della tecnica e il “Ce lo chiede l’Europa” non convince più.
(Claudia Pratelli)