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L’America, il voto e la coalizione dei diritti

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da http://italia2013.org/

Alla fine, è accaduto esattamente quello che gli analisti più accorti sostenevano fin dal principio: ha vinto Barack Obama, senza la quantità di voti e l’entusiasmo del 2008, con un certo grado di astensione in più e qualche stato in meno, ovvero Indiana e North Carolina (la Florida non è stata ancora assegnata in modo definitivo). Ma cosa è successo davvero in queste elezioni?

Un finale thrilling? No, ma Obama non è andato bene.L’ansia finale, il risultato in bilico, la rimonta di Romney… è stato possibile mediatizzare tutto questo grazie a un singolo e disgraziato evento: la pessima performance di Barack Obama nel primo confronto televisivo con Mitt Romney. I repubblicani hanno sentito l’odore del sangue, ci hanno creduto, sono riusciti a valorizzare le debolezze del Presidente uscente. I giornalisti hanno trovato la notizia che poteva incollare gli elettori davanti alla tv per quasi un mese. Dopo di ché è cominciata la guerra dei sondaggi sugli stati in bilico, o supposti tali: Colorado, Florida, Iowa, Nevada, Virginia, Wisconsin, New Hampshire, il famigerato Ohio.

I sondaggi sono stati usati come una clava: i repubblicani – e le loro società di rilevazione – sostenevano che i dati di ottobre sottostimassero la performance di Romney, sottorappresentando il ruolo dell’elettore repubblicano (leggi: il maschio bianco di mezza età) e dando un peso eccessivo alla partecipazione elettorale delle minoranze etniche, filodemocratiche. Gli strateghi democratici, al contrario, sostenevano che i dati in loro possesso su partecipazione al voto anticipato e preregistrazione nelle liste elettorali li faceva dormire sonni tranquilli. Hanno avuto ragione loro, ma qualche spavento se lo devono esser preso: Obama nel 2008 vinse con quasi 10 milioni di voti di distacco su McCain, questa volta con circa 2 milioni e mezzo.

Come ha vinto Obama? Il candidato democratico ha messo insieme la coalizione elettorale in ascesa del 2008, ovvero donne, giovani, ispanici e neri, e quel che bastava di working class bianca degli stati in bilico, quella che ce l’ha più con i ricchi che con il governo (negli altri stati questa constituency gli ha voltato le spalle). A questo scopo sono stati determinanti due fattori: il salvataggio del settore dell’auto, che ha contribuito a mantenere i livelli di disoccupazione in stati come l’Ohio al di sotto della media nazionale; l’impegno e l’abnegazione di Bill Clinton (cosa avrà in cambio?) e di tutti quelli che sanno parlare a quella porzione di elettorato meglio di Obama.

Negli stati in bilico dell’ovest e del sud dove Obama è tornato a vincere è stata decisiva la coalizione che rappresenta il futuro del paese: protagonismo femminile, giovani, minoranze, le città contro parte della suburbia e il mondo rurale. Se in termini quantitativi gli elettori di Obama nel giro di quattro anni sono decisamente diminuiti, in termini qualitativi la “coalizione” pro-Obama si mantiene identica.

Inoltre, non va dimenticato un elemento, tutto personalistico e “presidenziale”: nonostante la perdita di consensi, l’elettorato americano ha preferito sostenere e dare fiducia a Obama, alla sua immagine, a quella famiglia presidenziale. In parole povere, seppure in un generale clima di sfiducia verso la politica, tipico di tutte le democrazie occidentali, ha avuto più fiducia nel presidente in carica che nel suo concorrente repubblicano.

E i repubblicani? Per loro si apre una stagione molto complessa, proprio a causa della presenza di quei fattori che hanno permesso a Barack Obama di vincere le elezioni: non rappresentano l’elettorato potenzialmente espansivo del sistema politico americano. Cosa fare di un partito votato da poco più di un terzo degli elettori under 29, ignorato dal 77% dell’elettorato ispanico (secondo gli exit polls della CNN) e sempre più inviso alle donne? Alcuni leader repubblicani porranno la questione, poiché si stanno restringendo gli spazi a disposizione del proprio partito. In dieci anni la percentuale di elettori ispanici è cresciuta enormemente, e il GOP non li ha saputi intercettare. Per questo sarebbe stato così importante vincere queste elezioni: si sarebbe interrotto il consolidamento della nuova coalizione democratica uscita dal voto del 2008, e che appariva quasi invisibile nel 2004.

E c’è una questione che riguarda aspetti culturali e di valore. I repubblicani hanno trasformato queste elezioni in un doppio referendum: contro Obama e contro la sua aspirazione di rendere più accettabile il ruolo attivo del governo nella vita degli americani. Li hanno persi tutti e due: potranno permettersi di mantenere intatto il loro profilo culturale da qui al 2016?

Cosa farà ora Obama? Due questioni, dell’infinità che verranno trattate, discusse, abbandonate…. Prima di tutto, Obama dovrà confrontarsi di nuovo con i repubblicani a proposito della revoca delle esenzioni fiscali introdotte da George W. Bush, che verranno meno a partire dal 1 gennaio 2013. Di nuovo uno scontro che sarà al contempo ideologico e di interessi. Lo scontro sul budget sarà una costante dei prossimi quattro anni; toccherà a Obama trovare una strategia per affrontarlo. E poi, sarà l’ora dello scontro sul cosiddetto Dream ACT (Development, Relief, and Education for Alien Minors) e più ingenerale sulla legislazione in tema di immigrazione. Se il primo mandato si è caratterizzato per l’approvazione della riforma sanitaria, in questo second term è arrivato il momento di fare qualcosa per i nuovi americani.

La nuova coalizione dei diritti. Più in generale, andrà compreso quanta parte di questo elettorato favorevole a Obama potrà ricevere ciò che ha dato e ciò che chiede in termini di espansione dei diritti: i sindacati, che hanno finanziato la campagna in modo consistente e utilizzato i propri membri per condurre la campagna elettorale negli stati chiave, e che chiedono nuovi investimenti nel settore manifatturiero; le donne, che stanno costruendo un nuovo protagonismo politico in forte opposizione alla cultura conservatrice del partito repubblicano; i giovani, i più delusi da questi quattro anni di Obama, che incontrano gravi difficoltà nel permettersi un’istruzione e nel trovare lavoro; le minoranze, in ascesa demograficamente e sempre più determinate a costruire un proprio protagonismo politico.

Il potere dei soldi nella politica americana sarà ancora schiacciante, ma queste elezioni mostrano che non basta un agguerrito gruppo di miliardari per vincerle; i risultati dei referendum statali e locali (cannabis terapeutica, matrimoni dello stesso sesso, aumento della pressione fiscale allo scopo di finanziare il sistema dell’istruzione) mostrano, infine, che le gerarchie valoriali sono in veloce evoluzione, e una parte politica del paese è in sintonia con questo cambiamento.

La grande differenza con l’Italia è questa: nonostante la crisi della politica sia un fatto anche negli Usa, lì si parla di soggettività sociali e politiche che si mettono in relazione tra di esse, e la politica sembra accettare la sfida, anche se raramente sembra essere in grado di soddisfare le aspettative che si sono generate. Ma è un linguaggio più chiaro di quello che parla la politica del nostro paese.

(Mattia Diletti)

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