L’agonia della legge 194
Le ragioni per riparlare di aborto in Italia sono molte: il dibattito sull’inizio della vita che ha fatto seguito alla sentenza della corte europea sul divieto di brevetto delle terapie basate sulla distruzione degli embrioni; le elezioni presidenziali in Argentina che hanno riportato in primo piano le politiche di tutela dei diritti delle donne; il dibattito sugli esiti politici e culturali della cosiddetta primavera araba riguardo alla parità tra i sessi; il riaccendersi di un conflitto ideologico, mai del tutto sopito, sull’applicazione della legge194 inItalia (qui il testo della legge).
Anche gli anni ’70 sono rientrati a pieno titolo nell’attualità politica delle ultime settimane, per una semplificatoria assuefazione iconografica che porta l’opinione pubblica, immancabilmente, ad associare le guerriglie urbane contemporanee a quelle dell’epoca.
Questi due temi – la legge 194 e gli anni ’70 – sono più legati di quanto sembri. Non solo perché la legge fu approvata nel 1978 (e poi confermata dal referendum del 1981) , ma soprattutto perché, con quella scelta, la politica italiana fu costretta, in qualche modo, a una svolta interpretativa importante. Accettare, cioè, la dimensione di fenomeno sociale dell’interruzione volontaria di gravidanza, e assumere responsabilmente l’impegno di gestirlo per ridurne i costi umani e sociali, sottraendolo all’area grigia della solitudine, del dolore e dello stigma.
Con tutte le legittime riserve morali e i distinguo, l’interruzione volontaria di gravidanza, anche allo scopo di prevenirla e disincentivarla, era diventata, in qualche modo, un fatto di cui la collettività si faceva carico, prendendo sulle sue spalle il dolore di una decisione privata. E questo è stato un lascito importante di quel periodo.
Sono passati quasi 40 anni da allora. Gli aborti volontari sono diminuiti in una percentuale superiore al 45%, il profilo sociale e demografico delle donne e delle coppie italiane è molto cambiato, la ricerca medica ha avuto uno sviluppo straordinario.
Ma l’interruzione volontaria di gravidanza sta lentamente tornando ad essere un fatto di fronte al quale la collettività volta la faccia: rischia di tornare ad essere un calvario privato che le donne e le coppie condividono (a fatica) con i 150 (150!) ginecologi non obiettori distribuiti sul territorio nazionale, facendo i conti con la riduzione lenta e inesorabile dei consultori familiari – in Italia ne sono stati chiusi 230 solo tra il 2008 e il 2010 – e con una recrudescenza di atteggiamenti umilianti e oltraggiosi del personale medico e paramedico che pratica l’obiezione di coscienza, sia nei confronti dei colleghi non obiettori, sia nei confronti delle donne e delle coppie che intendono interrompere la gravidanza.
Le pratiche per l’IVG, come hanno sottolineato i medici della LAIGA (l’associazione dei ginecologi per l’applicazione della 194) nel loro primo convegno nazionale lo scorso 22 e 23 ottobre, sono praticamente fuori dai programmi di specializzazione dei ginecologi, e i medici non obiettori sono costretti, in reparti desertificati, ad occuparsi per tutta la loro carriera professionale, solo ed esclusivamente di aborti, non riuscendo, peraltro, a garantire adeguato supporto e assistenza alle pazienti. Tutto questo in un quadro di straordinario progresso della ricerca medica prenatale. Con la paradossale conseguenza di diagnosi sempre più sofisticate e tempestive riguardo malformazioni e disfunzioni del feto, di fronte alle quali poi, la donna e la coppia, vengono lasciati da soli.
Sbaglia chi crede che sia in discussione un principio morale. E’ in discussione il progressivo ritirarsi della responsabilità pubblica dalla tutela di un diritto costituzionale. Se i ginecologi obiettori sono passati dal 58% del totale nel 2005 apiù del 70% nel 2010, viene naturale chiedersi come mai, di fronte a un numero sempre più basso di aborti, la coscienza dica sempre più spesso di no.
(Francesca Romana Marta)
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