pubblicato su Femministerie
Le pagine romane de La Repubblica oggi aprono con un titolo che mi ha fatto sobbalzare: “La città delle donne, vittime”. Non perché non conosca i dati forniti dalla procura sul numero di denunce, omicidi, stupri. Sappiamo che nel nostro paese ancora fatichiamo ad avere una fotografia veritiera di un fenomeno stabile delle nostre società (occidentali e non) come quello della violenza maschile contro le donne, di cui solo la punta dell’iceberg arriva alla denuncia o alle cronache dei giornali.
Capisco la provocazione del titolo, ma sobbalzo comunque, perché non ci sto ad una fotografia che ci consegna solo al ruolo di vittime. E non solo perché tante donne “ribelli” hanno attraversato e attraversano le strade della capitale.
E’ vero, è in corso una vera e propria guerriglia contro la nostra libertà, siamo il paese in cui diminuiscono gli omicidi mentre rimane stabile quello dei femminicidi. Ma se siamo qui a raccontarlo è perché lo abbiamo denunciato e nominato questo fenomeno – che va dalle relazioni intime a quelle di lavoro – e ci siamo sottratte al dominio maschile. La violenza viene chiamata così, riconosciuta come tale perché abbiamo messo in crisi il patriarcato e prodotto cambiamento.
Roma è la città dei primi centri antiviolenza nati dalla relazione politica tra amministratrici locali e associazioni femministe, è la città della Casa internazionale delle donne e di Lucha y Siesta. E’ anche la città della sindaca Raggi, per la prima volta una donna a capo del governo cittadino, che sta mettendo a rischio l’esistenza dei luoghi delle donne.
Dobbiamo vedere questo chiaroscuro. Non siamo ferme a 40 anni fa. Siamo in un’epoca definita post-patriarcale, non perché sia scomparsa la subordinazione femminile, ma perché le donne non sono più disposte ad accettarla. Novantaquattro femminicidi dall’inizio dell’anno, centoquaranta due l’anno scorso, se dietro i numeri andiamo a leggere le storie di queste donne quasi sempre si tratta di persone che non volevano piegarsi, avevano magari già denunciato, oppure se ne erano andate di casa, avevano lasciato il fidanzato violento.
Viviamo sulla nostra pelle lo scompiglio portato dalla nostra libertà.
Siamo al centro di un conflitto epocale in cui precipitano insicurezze identitarie e sociali, precarizzazione delle vite e dei legami. La risposta delle destre alle disuguaglianze, come scrive Eric Fassin, è il risentimento, passione triste che non mette in discussione i rapporti di potere, a cominciare da quello tra i sessi, al contrario è produttrice di sessismo e di dominio.
E’ entrato in crisi, per fortuna, anche un modello di uomo guerriero e dominatore. Ma la crisi produce anche contrattacchi. La destra illiberale semina machismo e sessismo, desiderio di ordine e di ritorno alla famiglia autoritaria.
A noi tocca chiedere invece giustizia, come diceva Tina Lagostena Bassi nella memorabile arringa in Processo per stupro: “A nome di Fiorella e a nome di tutte le donne, molte sono, ma l’ora è tarda e noi vogliamo giustizia. E difatti questo io vi chiedo: giustizia. Noi non chiediamo le condanne, non c’interessano. Ma rendete giustizia a Fiorella, e attraverso la vostra sentenza voi renderete giustizia alle donne, a tutte le donne”
Noi ancora oggi, più forti di ieri, chiediamo e promuoviamo giustizia.
Lo fanno ogni giorno le donne che tengono in vita i centri antiviolenza e la case rifugio, ma sono tante le operatrici della giustizia, delle forze dell’ordine, del sistema sanitario, le insegnanti, le amministratrici locali che promuovono prevenzione e contrasto della violenza di genere.
C’è bisogno una politica che aggredisca alla radice la violenza maschile contro le donne, “manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi”, come ci insegna la Convenzione di Istanbul ratificata dall’Italia nel 2013. Farlo dovrebbe essere una priorità delle politiche pubbliche perché la violenza è una grande ingiustizia, una ferita profonda della nostra convivenza.
Bisogna uscire dalla logica emergenziale che spesso ha segnato gli interventi su questo tema. Per sradicarla occorre intervenire su più fronti: da quello culturale alla messa in discussione di un assetto sociale. Bisogna investire sulla forza delle donne e promuovere il cambiamento degli uomini, perseguire chi compie atti di violenza e accogliere e supportare chi li subisce, rafforzando i percorsi di fuoriuscita dalla violenza delle donne, la rete dei centri e delle case rifugio, l’impegno integrato dei diversi attori istituzionali.
Servono azioni di sistema. Vogliamo un cambio di passo delle politiche italiane su questo fronte. C’è un nuovo governo, vogliamo discontinuità.
La Convenzione di Istanbul va davvero applicata e implementata nei suoi diversi ambiti. A partire dalla prevenzione, dalla cultura, dalle scuole. L’educazione al rispetto e alle differenze, il contrasto agli stereotipi, sono essenziali. Bisogna rafforzare l’intervento in questo ambito e non lasciare le insegnanti e gli insegnanti soli, insieme alle associazioni, a promuovere percorsi contro la violenza e gli stereotipi. E’ tempo di far diventare strutturale questa educazione. Lo stesso vale per la formazione universitaria, che poi è quella degli operatori, medici, psicologi, avvocati.
Per proteggere meglio bisogna investire di più sulla rete dei centri antiviolenza e delle case rifugio, semplificare procedure, superare i finanziamenti annuali, garantendo maggiore programmazione e stabilità a questi presidi essenziali di contrasto e presa in carico delle donne e dei loro figli. I fondi statali arrivano tardi alle Regioni (ancora non sono stati ripartiti quelli del 2019) e spesso le Regioni poi fanno fatica a riprogrammare. Va semplificato e migliorato il meccanismo, costruito un vero sistema nazionale, a cui concorrono regioni e enti locali che promuova questi luoghi e la loro autonomia e nel farlo ne garantisca continuità. Vanno rafforzati i percorsi di fuoriuscita dalla violenza, dall’autonomia abitativa all’inserimento lavorativo. Va scelto di mettere al centro l’autodeterminazione e l’empowerment delle donne, bussola anche delle politiche repressive. Quelle che fino ad oggi hanno prevalso nella produzione normativa, qualche volta con effetti discutibili, come con il codice rosso, che impone l’urgenza per tutto, di fatto vanificandola.
Ci sarebbero tanti singoli punti, primo fra tutti sbloccare i fondi per gli orfani di femminicidio.
Ma qui non è questione di singoli punti, ma di sistema e di rapporti di potere. E ‘una priorità investire sulla prevenzione e il contrasto della violenza maschile contro le donne.
Personalmente ho una responsabilità istituzionale nella Cabina di regia della Regione Lazio su questo tema, sono anche una democratica che con altre è impegnata a farne un punto essenziale del programma di governo del proprio partito. Sono prima di tutto una femminista e penso che in relazione politica tra di noi, ognuna a partire dalla propria vita, da quello che fa, dall’impegno che può metterci, dobbiamo esigere un salto di qualità delle politiche contro la violenza di genere.
Ancora una volta, vogliamo giustizia: nelle relazioni, nella società, nei tribunali